Accompagnare chi è malato è un miracolo che vince le paure, è giunto il tempo che ciascuno si senta responsabile del fratello che soffre facendolo sentire al centro di una “comunità curante” che si preoccupa, si interessa. Don Massimo Angelelli – direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale della Salute a Nuoro per una conferenza sul tema “La sofferenza, il male e la morte interrogano la Bibbia” – ha così delineato i tratti di un nuovo stile ecclesiale: dove non arrivano le strutture, a volte impegnate a redigere progetti a lungo termine, è necessario che i laici in prima persona agiscano nel concreto della quotidianità, anche con gesti semplici ma fondamentali per far sentire vicinanza e prossimità, a partire dai casi più semplici a quelli più gravi, come il Papa ha ricordato pochi giorni fa. Il verbo da declinare è accompagnare, vale per l’anziano vicino di casa come per il malato terminale che schiacciato dal peso della malattia vorrebbe porre fine alla propria esistenza.
Ma l’incontro di venerdì 5 ottobre organizzato dall’Ufficio diocesano di Pastorale della Salute guidato da don Antonio Sedda aveva come punto di partenza la Scrittura. La Bibbia – ha subito chiarito don Angelelli – non distingue tra dolore e sofferenza, ma noi sappiamo che il primo ha una dimensione biologica, ci dice che qualcosa non va nel corpo, mentre la sofferenza è una dimensione dell’anima.
Si tratta in ogni caso di una esperienza personale, singolare, di un mistero di fronte al quale è lecito chiedersi “perché”. Dio non ci dice il senso del mistero «perché non saremo in grado di sopportarlo» ma il mistero è una realtà che ci comprende. Come dare allora un senso? nel tempo, vale per l’Antico testamento ma anche per l’oggi, ci siamo inventati degli schemi – ha proseguito don Angelelli. Il primo è quello della giustizia retributiva, il nesso colpa-castigo, ed è una dimensione questa molto presente nel popolo di Israele. Giobbe la rifiuta perché sa di essere innocente e d’altronde nella Salvifici doloris Giovanni Paolo II sottolinea che non c’è legame tra peccati e dolore.
Altro schema, ed è quello che troviamo ad esempio nella Genesi, dice che i mali provengono dai nostri errori, è una conseguenza di azioni sbagliate ma non tutto – ha spiegato il sacerdote – è attribuibile alla volontà dell’uomo. Anche chi ha responsabilità dirette non sempre può essere “colpevole”, molte volte è semplicemente vittima delle cose.
Un terzo schema è quello della prova e purificazione. È vero che una malattia può essere una occasione per avvicinarsi a Dio ma può anche, in molti casi, allontanare dalla fede. «Dio non manda le prove », ha affermato Angelelli.
Altro schema descrive il dolore come elemento educativo: la sua funzione formatrice relativizza tante realtà ridefinendone il valore. Lo troviamo ad esempio in Isaia che descrivendo il servo sofferente già prefigura il Messia.
Tutte queste forme – ha spiegato don Angelelli – sono insoddisfacenti, eppure sono molto presenti nella nostra mentalità. La figura di Giobbe – però – aiuta a dare una lettura nuova. È un giusto e ha una certezza personale che tutto abbia un senso. Prima c’è la contestazione, il lamento – non siamo di fronte a un eroe ha commentato il direttore dell’Ufficio Cei – ma c’è anche la certezza che Dio è giusto. La soluzione del mistero del dolore sta nell’incontro con Dio, la sofferenza è occasione per la presenza di Dio.
Ma Giobbe non può fare un passaggio ulteriore perché non ha conosciuto Gesù. «Gesù ha dato la risposta, in Cristo c’è il vero senso del dolore dell’uomo: il valore vero della sofferenza è quello salvifico. La salvezza è liberazione dal male e dalla morte». Se recuperiamo l’idea che la nostra esistenza non è limitata allora capiamo che Cristo è venuto perché non moriamo più, Lui ha spalancato la porta dell’eternità. L’Antico Testamento non ha capito che dopo c’è di più, Cristo ha sperimentato invece che c’è altro. «La vittoria di Cristo non abolisce la sofferenza – ha proseguito don Angelelli citando San Giovanni Paolo II – ma su questa sofferenza egli getta la luce della salvezza». Gesù dunque ne dà un valore nuovo, redentivo.
«Anche noi possiamo vivere la stessa dimensione, una sofferenza vissuta nella fede del Risorto, ciascuno è chiamato cioè a vivere lo stesso percorso. Solo credendo profondamente in una vita oltre questa tutto ha un senso – ha concluso don Angelelli – senza la dimensione redentiva la sofferenza non ha senso e diventa un peso insopportabile». (fra. co.)
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