“Questi due missionari, che dedicarono la vita alla trasmissione della fede e alla difesa delle popolazioni indigene, furono uccisi nel 1683 perché portavano il messaggio di pace del Vangelo. L’esempio di questi martiri ci aiuti a testimoniare la Buona Novella senza compromessi, dedicandoci generosamente al servizio dei più deboli”. Così il Papa questa domenica, invitando i fedeli presenti in Piazza San Pietro per l’Angelus ad un lungo appaluso, saluta la beatificazione di Pedro Ortiz de Zárate e Giovanni Antonio Solinas. Il loro è stato un “fiorire, la primavera della Chiesa”, ha voluto sottolineare, dal canto suo, il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, nell’omelia della cerimonia di beatificazione ieri in Argentina. Il martirio di questi due missionari,lo ha definito “lontano nel tempo”, ma purtroppo non nelle modalità cruente e brutali che tornano sempre alla ribalta, ad esempio nelle guerre. Originariamente, nella causa di beatificazione, accanto a questi due sacerdoti c’erano anche i 18 laici uccisi con loro in odium fidei, che poi sono stati espunti a causa dell’assenza di documentazione storica.
Uccidere un fervente cristiano per cancellare la fede in Gesù non solo è inutile, è deleterio, perché quell’uccisione diventa martirio e il martirio rafforza la fede invece di distruggerla, afferma il cardinale Semeraro. Una verità che era già nota a Tertulliano, che infatti scriveva: “il sangue dei cristiani è un seme”, e che Sant’Agostino approfondirà precisando che dal seme di quei pochi è derivata l’abbondante messe che siamo noi tutti. “La morte dei suoi Santi è dunque preziosa agli occhi del Signore, benché agli occhi degli uomini non abbia avuto alcun valore – spiega il porporato citando le parole del vescovo di Ippona – ma cos’è che dona valore a quella morte se non la morte del Santo dei Santi, ossia del Signore, che è il primo seme da cui è germogliata la Chiesa”. Una verità che era già presente nel Nuovo Testamento, specificamente nel discorso della Montagna: “Beati i perseguitati per la giustizia” che “si riferisce precisamente alle persecuzioni – aggiunge il cardinale -, accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità”.
Pedro Ortiz de Zárate è stato ordinato sacerdote nel 1657, ma si tratta della sua ‘seconda vita’. Nato il 29 giugno 1626 in Argentina da genitori di origine basca, molto cristiani e timorati di Dio, riceve un’educazione basata su una profonda fede e pietà. Si sposa e ha due figli, ma quando la moglie lo lascia vedovo prematuramente, in lui si riaccende qualcosa che aveva dentro fin dall’adolescenza. Dio lo chiama. Così affida i figli e il patrimonio alla suocera e sceglie la via del sacerdozio. In seguito partirà come missionario tra quegli indios che amava come fossero figli suoi. “Un testimone di Cristo in molti stati di vita – lo definisce Semeraro nell’omelia – un buon politico, un buon marito e un buon padre; in seguito sarà un sacerdote eccellente che conosceva bene gli indios, li difendeva, li battezzava e li guidava come cristiani”.
Giovanni Antonio Solinas, sardo di Oliena, nato nel 1663, cresce in una famiglia nobile ed esemplare nella fede. Viene mandato a scuola dai gesuiti. È qui che matura la sua vocazione. Entra nella Compagnia di Gesù e studia prima a Cagliari e poi a Sassari. Ma la sua destinazione è un’altra: la missione in America Latina. Il sogno si realizza quando finalmente sale su una nave nel porto di Cadice. Siamo nel 1674. Laggiù si dedicherà all’evangelizzazione degli indios, ma anche alla cura pastorale delle famiglie spagnole residenti, all’assistenza di anziani e malati, al catechismo dei bambini. “Fu la spinta missionaria a portarli verso il reciproco incontro – sottolinea il porporato alludendo ai due beati – insieme si misero a servizio del Vangelo e furono fedeli sino all’effusione del sangue”.
Pedro e Giovanni si stabiliscono nella Valle del Zenta, precisamente nel Giaco, dove volevano creare reducciónes per le tribù di indios, allo scopo di portare la Buona Novella. La prima, dedicata a San Raffaele, la mettono su in fretta, e in breve tempo contano un centinaio di catecumeni. È qui che il 26 ottobre 1683 arriva una falange di 500 indios Toba e Mocovi, armati fino ai denti e con il corpo interamente decorato. I due sacerdoti sanno che quelle decorazioni si fanno solo in due occasioni: una festa oppure una guerra, e della prima non c’era traccia. Tuttavia gli indios li rassicurano di essere venuti in pace per dare loro il benvenuto e la giusta accoglienza. I due padri non si fidano, ma non possono fare altro che continuare il loro lavoro distribuendo cibo e vestiti, ma soprattutto parlando di Dio. La mattina del 27 ottobre gli indios circondano la cappella. Per i sacerdoti non c’è scampo contro le loro frecce e le loro clave.
“C’è un intimo rapporto tra martirio ed Eucaristia – evidenzia il cardinale Semeraro riprendendo ancora Sant’Agostino –; offrendoci il suo sangue per la remissione dei nostri peccati, Cristo ci ha donato non tanto un esempio da imitare, quanto piuttosto un dono di cui essergli grati. Per questo ogni volta che i martiri versano il loro sangue per i fratelli, ricambiano il dono da essi ricevuto alla mensa del Signore”. Il porporato cita poi San Carlo Borromeo, grande vescovo della Chiesa di Milano del XVI secolo che definiva l’Eucaristia “il pane dei forti”, prendendo in prestito un’espressione del Salmo 78. “Questo pane dei forti conferisce, appunto, fortezza – prosegue – quanta debolezza quando, invece, si smette di assumere questo cibo, quanta infermità e insicurezza (…) le nostre anime non possono restare vive e forti a lungo senza cibo spirituale”. “È dall’Eucaristia, infatti, che nasce la forza di essere cristiani, di rimanere cristiani, di vivere da cristiani – conclude Semeraro – se per tanti la fede è ridotta a una cosa che si perde con facilità, la ragione è nella lontananza dall’Eucaristia”. (Vatican News)