Toccare Cristo nella carne del povero
di Franco Colomo
Che senso ha esprimere solidarietà a parole ma senza accompagnarla con dei segni concreti? Per dirlo con le parole di Francesco, il Papa della concretezza, «Non amiamo a parole ma coi fatti»: questo è il tema scelto dal pontefice per la prima giornata mondiale dei poveri che si è celebrata il 19 novembre. È il lascito più bello, forse, del Giubileo della Misericordia, istituita con la lettera apostolica Misericordia et Misera e ideata, come confessa Francesco, alla luce della giornata dedicata alle persone socialmente escluse con la quale si è concluso l’Anno Santo.
La diocesi di Nuoro, per la felice collaborazione di due organismi pastorali, la Caritas con la direttrice suor Pierina Careddu e l’Ufficio di Pastorale del lavoro con don Pietro Borrotzu, ha pensato ad una Veglia da tenersi nel Santuario delle Grazie, meta in questo periodo di numerosi fedeli che assistono alla Novena in onore della Madonna. Così, nella serata di domenica, volontari e operatori si sono ritrovati insieme ad alcune delle persone assistite quotidianamente, per meditare e pregare intorno alla Parola di Dio e al Messaggio del Papa.
Una Veglia caratterizzata da tre segni: il profumo, le mani, il pane. «Amando come Cristo ha amato il nostro cuore spargerà il Suo profumo » ha detto il celebrante consegnando ad alcuni volontari dei vasetti di olio profumato. Le mani poi sono state invitate a toccare il Crocifisso posto dinanzi all’altare, un messaggio alto, un invito a toccare Cristo nella carne del povero. Infine il pane, le ceste donate dalle parrocchie e benedette durante la Veglia sono state ridistribuite nel segno della condivisione e nel segno della preghiera del Padre nostro, la preghiera dei poveri: «Ai discepoli che chiedevano a Gesù di insegnare loro a pregare – ha scritto il Papa nel suo Messaggio –, Egli ha risposto con le parole dei poveri che si rivolgono all’unico Padre in cui tutti si riconoscono come fratelli. Il Padre nostro è una preghiera che si esprime al plurale: il pane che si chiede è “nostro”, e ciò comporta condivisione, partecipazione e responsabilità comune».
Nella preghiera sono stati ricordati i tanti volti della povertà, dolore, emarginazione, sopruso, violenza, torture, prigionia e guerra, privazione della libertà e della dignità, ignoranza e analfabetismo, emergenza sanitaria e mancanza di lavoro, tratta e schiavitù, esilio e miseria verso cui – ha scritto il Papa – spesso alziamo muri e recinti, pur di non vederli e non toccarli, dall’altro della nostra “ricchezza sfacciata”. I poveri, ammonisce il Papa nel Messaggio, non sono i semplici destinatari di una buona pratica di volontariato. Non si può restare indifferenti «alla povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce; a tutto questo occorre rispondere con una nuova visione della vita e della società». È quanto cercano di fare, pur con fatica, i volontari della Caritas diocesana. Nell’ultimo anno sono circa 400 le persone che si sono rivolte al Centro d’ascolto ma il numero di quanti cercano aiuto a assistenza è certamente maggiore, manca purtroppo un “registro unico” di quanti sono i destinatari degli interventi, spesso per la mancata collaborazione tra le varie associazioni caritative che va a discapito dei poveri stessi. Un censimento dei bisogni e delle necessità non farebbe altro che orientare meglio anche la risposta dei volontari sul campo, una risposta che vada oltre il pasto donato ma aggredisca la povertà lì dov’è la sua causa.
La Chiesa svolge su questi temi una importante funzione di supplenza delle istituzioni, con una presenza spesso misconosciuta, ma è necessario ricordare qui il lavoro dell’ufficio Servizi sciali del comune di Nuoro con numeri importanti, quasi duemila persone tra adulti e minori in comunità, assistiti per varie malattie, per progetti ministeriali come carta Sia (sostegno inclusione attiva), Reis (reddito di inclusione sociale), programmi nazionali e ancora assistenza domiciliare, scolastica, trasporto, servizio educativo.
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- Le immagini della celebrazione negli scatti di Gigi Olla
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La parola del Papa
C’è un “fil rouge” che lega la Giornata, la prima, voluta da papa Francesco per i poveri e l’apertura della porta santa nella cattedrale di Bangui, Repubblica Centroafricana. Era il 29 novembre del 2015 quando Francesco ha bussato a quella semplice porta di legno per aprire, una settimana prima, l’Anno santo della misericordia, in quella città diventata la «capitale spirituale del mondo». Da Bangui Francesco ha guardato al mondo, ai malati, agli anziani, ai feriti dalla vita: «Alcuni di loro sono forse disperati e non hanno più nemmeno la forza di agire, e aspettano solo un’elemosina, l’elemosina del pane, l’elemosina della giustizia, l’elemosina di un gesto di attenzione e di bontà».
In questa domenica, due anni dopo, Francesco apre le porte di San Pietro a settemila ultimi, in occasione della Giornata mondiale dei poveri, istituita a conclusione del Giubileo della misericordia. Perché, come ricordava già Papa Paolo VI nella sua Populorum progressio, il 26 marzo 1967, nel mondo sono «innumerevoli gli uomini e le donne tormentati dalla fame, innumerevoli i bambini sottonutriti, al punto che molti di loro muoiono in tenera età, che la crescita fisica e lo sviluppo mentale di parecchi altri ne restano compromessi». Per questo parlava di sviluppo come nuovo nome della pace; di un dovere di solidarietà per costruire «un mondo, in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente padroneggiata; un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Laz- zaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco».
Francesco, con la giornata dedicata agli ultimi, dice che «amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali». È un “toccasana” per tutti «accostare chi è più povero di noi: toccherà la nostra vita. Ci ricorderà quel che veramente conta: amare Dio e il prossimo. Solo questo dura per sempre, tutto il resto passa; perciò quel che investiamo in amore rimane, il resto svanisce».
L’Aula Paolo VI si è trasformata in una grande sala da pranzo, e non sono pochi a volere un selfie con il Papa. Mille cinquecento persone pranzano alla presenza di Francesco, che divide un tavolo con una ventina di poveri, i “fratelli più piccoli” prediletti da Gesù: «L’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole: “questo è il mio corpo”. Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore».
Poi pronuncia una parola che, dice, «forse è andata un po’ in disuso: omissione». Siamo nella domenica in cui il Vangelo propone la parabola dei talenti. Non si tratta di essere efficienti, di avere sempre più profitti, ma la parabola è invito a non stare con le braccia conserte – viene in mente don Milani: a che serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca – ad essere, per usare le parole di papa Francesco, cristiani di pasticceria.
«Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati – ha detto nell’omelia in San Pietro il Papa – e per questo non fare nulla di male non basta». E poi ha aggiunto: «È triste quando il Padre dell’amore non riceve una risposta generosa di amore dai figli, che si limitano a rispettare le regole, ad adempiere i comandamenti, come salariati nella casa del Padre». E ha continuato: «Non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato». È l’immagine del servo che ha sotterrato il talento ricevuto, per paura del suo padrone. Ma la paura, dice Francesco, «immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate», ci si rifugia in soluzioni sicure e garantite e «così si finisce per non realizzare niente di buono». È fedele «colui che aggiunge talenti nuovi… mette in gioco la vita per gli altri». L’unica omissione giusta: «Tralasciare il proprio utile».
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