L’immagine della cupola di Santa Maria del Fiore, con la raffigurazione al suo interno del Giudizio Universale. Il Peppone e il don Camillo di Guareschi che si fronteggiano con rispetto da fronti opposti, senza paura di litigare. Un vescovo che in una metropolitana affollata non sa dove reggersi e allora conta sul sostegno della sua gente. Tre immagini che raccontano, in sintesi, il discorso di Papa Francesco ai 2.200 rappresentanti della Chiesa italiana, riuniti a Firenze fino a venerdì per il loro quinto Convegno ecclesiale nazionale. Poco prima, Francesco aveva avuto l’occasione di ammirare la “Crocifissione bianca” di Marc Chagall, uno dei suoi quadri preferiti. Il decimo viaggio pastorale di Papa Francesco in Italia era iniziato due ore prima, a Prato, dove incontrando il mondo del lavoro aveva chiesto “patti di prossimità”. “Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”, il sogno del Papa da Santa Maria del Fiore, in cui ha chiesto ai cattolici di essere “creativi” e di credere “al genio del cristianesimo italiano”. Nella Messa allo stadio Artemio Franchi, momento conclusivo del viaggio, Francesco ha ricordato che l’umanesimo, a partire da Firenze che ne è stata la culla, “ha sempre avuto il volto della carità” e ha auspicato “che questa eredità sia feconda di un nuovo umanesimo per questa città e per l’Italia intera”.
L’iscrizione alla base dell’affresco recita “Ecce Homo”. Il Papa la guarda, all’esordio del suo discorso a Santa Maria del Fiore, e dice che “possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo”. “Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Gesù, è il misericordiae vultus”, simile a quello “di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati”. Il primo affondo: “Non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto”.
“Umiltà, disinteresse, beatitudine”. Tre parole che per il Papa dicono molto dell’identità della Chiesa italiana. “Disinteresse” significa “cercare la felicità di chi ci sta accanto”, perché “l’umanità del cristiano è sempre in uscita, non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio”. Il secondo affondo: “Evitiamo, per favore, di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli”. “Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine”. Il terzo affondo: “Non dobbiamo essere ossessionati dal potere. Una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste”. Poi uno dei temi chiave di questo pontificato: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.
Le tentazioni da evitare. Il quarto affondo arriva dal no alle “pianificazioni perfette perché astratte”, ad “uno stile di controllo, di durezza, di normatività”: “Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”. Oltre a quella del pelagianesimo, l’altra tentazione da cui guardarsi è lo gnosticismo, che “porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza del fratello”. “Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e generare intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo”, il quinto affondo.
Bisogna imparare da “grandi santi” come Francesco d’Assisi e Filippo Neri, ma anche da personaggi come don Camillo “che fa coppia con Peppone”: “Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte”.
Prima i poveri. “Popoli e pastori insieme”, il sesto affondo del Papa: “Ai vescovi chiedo di essere pastori: sarà la gente, il vostro gregge, a sostenerci”. Come il vescovo che, in metro all’ora di punta, “si appoggiava alle persone per non cadere”. Perché “quello che fa stare in piedi un vescovo è la sua gente”. Settimo affondo sotto forma di preghiera: “Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro”. Prima i poveri: la Chiesa “ha l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati”.
“Dialogare non è negoziare”, avverte Francesco esortando alla cultura dell’incontro: “Il modo migliore di dialogare è quello di fare qualcosa insieme, non da soli, tra cattolici, ma insieme agli uomini di buona volontà”, l’ottavo affondo, perché “il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze”. “La nazione non è un museo”, la Chiesa ha titolo per intervenire nel dibattito pubblico. Ai giovani, Francesco ha chiesto di “superare l’apatia” e di non guardare la vita dal balcone. Per tutta la Chiesa italiana, a ogni livello, un’indicazione: un percorso sinodale centrato sulla “Evangelii Gaudium”.
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