Alluvione un anno dopo: numero speciale dell’Ortobene

A un anno dall’alluvione che ha sconvolto l’isola il 18 novembre del 2013, il settimanale diocesano L’Ortobene dedica un numero speciale con il reportage dai paesi colpiti, la cronaca su quanto è stato fatti in questi mesi e quanto ancora resta da fare soprattutto in termini di prevenzione.  Il ricordo di quel tragico giorno è accompagnato dalle informazioni sull’inchiesta giudiziaria mentre la Caritas dà conto degli interventi realizzati a favore delle popolazioni colpite. Spazio anche a due interviste: parla il nuovo responsabile della Protezione civile e dà la sua testimonianza esclusiva Annalisa Lai, moglie del poliziotto Luca Tanzi, caduto in servizio sul ponte tra Oliena e Dorgali.
La prima pagina ospita l’intervento del vescovo che ripercorre il suo viaggio nelle zone più colpite. Lo proponiamo qui in anteprima.

 Faccia a faccia con la dignità
+ Mosè Marcia

Dopo il ponte di Marreri una decina di persone ferme si scambiano impressioni, ultime notizie avute non si sa come. Sono le 7.30 del mattino del 19 novembre di un anno fa: all’incrocio tutti vorrebbero proseguire, confidano le loro ansie e preoccupazioni, quanto a ciascuno è noto sulla terribile alluvione diventa oggetto di conversazione e incoraggiamento a una qualche decisione. Non si sa quale strada possa essere percorribile. Certamente è interrotta la Statale 131 dcn in direzione Olbia. L’unica possibilità per raggiungere la Baronia pare sia arrivare a Orune, proseguire per Bitti e attraverso la vecchia strada di Lula rientrare sulla Nuoro-Siniscola.
Raggiungo Bitti, cerco il parroco, è il giorno del suo cinquantesimo compleanno. È impossibile attraversare il paese. Mentre da parte di tutti è una frenetica corsa a recuperare gli spazi occupati dal fango, col sindaco e i due sacerdoti andiamo in campagna dove Mercedes, in pianto ma piena di sconcertante speranza, invoca la restituzione di Giovanni Ferri, suo marito, che la furia dell’acqua ha portato via, spazzando anche la casa rurale.
Finalmente, ormai è pomeriggio, sono a Galtellì. Errate e preoccupanti notizie, dopo quanto visto, mi avevano preparato all’impossibile. Con sollievo incontro invece una realtà, certo molto disagiata e dolorosa, ma ben lontana da disastro già constatato.
Credevo di aver capito tutto dell’alluvione, quanto m’illudevo! A Torpè, infatti, la fine della giornata mi presenterà il ciclone che distrugge, ma è incapace di distruggere tutto. Col suo cimitero mi farà capire il senso della vita, della solidarietà e del rispetto: in Giovanni scoprirò l’amore e la famiglia che nessuna “bomba d’acqua” può cancellare.
Da Galtellì, a bordo di un fuoristrada, raggiungo finalmente proprio Torpè. Voglio visitare signora Maria, l’anziana ammalata che l’alluvione ha portato via all’affetto dei suoi. Il parroco non è in chiesa né in canonica, lo trovo in giro nel paese a dare aiuto e distribuire, dove necessario, quanto la solidarietà incomincia a far giungere. Con lui cerchiamo la defunta. È un’impresa raggiungere prima e riconoscere dopo la casa. Siamo in campagna e l’onda fangosa passando ha strappato via tutto, lasciando solo sabbia. Immagino abbiano portato la defunta nella cappella del cimitero e mi avvio.
Il camposanto di Torpè è articolato in diversi livelli, a discendere dalla strada statale verso il fiume che ha esondato e l’acqua ha portato tanto fango da deporre melma anche sulle tombe del livello più alto. Non posso andare oltre, la fanghiglia rende pericoloso anche camminare. Chiamo un signore che nel livello inferiore spala del fango. Si avvicina: è Giovanni. Alla mia domanda dove trovare la defunta Maria, prima risponde a monosillabi, poi senza scomporsi, con fierezza, dolore, tristezza e grandissima dignità mi racconta: «Ieri sera ero in campagna a lavorare, non è venuta giù una goccia di pioggia. Sono rientrato all’imbrunire, ma la mia casa non c’era più. Era sotto l’acqua». Con la mano mi indica la direzione della sua abitazione, in basso, oltre il cimitero. Dove è andato poi?, chiedo. «Ho dato una mano a chi era ancora sopra i tetti, ho aiutato a mettere in salvo il possibile, fino alle tre del mattino circa quando l’acqua ritirandosi ha permesso che entrassi in casa, ma non c’era più nulla, neppure le finestre, ha portato via tutto. Ho due figli sposati, abitano lì, in alto. Mi hanno chiamato, mi volevano con loro. Loro però hanno la loro famiglia. Io, la mia famiglia, la mia casa, ora l’ho qui: sto pulendo la tomba di mia moglie, la mia famiglia è qui». Con la voce che prelude il pianto, Giovanni prosegue e insiste: «Loro mi vogliono bene, ma hanno la loro vita, la loro famiglia. La mia è qui».
Un nodo alla gola prende il sopravvento sulla parola. Con gli occhi bassi che già luccicano, prima che le lacrime lo dominino, Giovanni mi stringe la mano in segno di saluto e senza proferire altra parola, mi dà le spalle e torna al suo lavoro. Alla tomba della sua signora da ripulire. Alla sua famiglia.
Rientro a casa, sul tardi: ringrazio il Signore di avermi fatto incontrare Giovanni e in lui di avermi detto qualcosa di più sull’alluvione: quel dialogo nel cimitero di Torpè mi torna in mente tre giorni dopo, nella chiesa del Sacro Cuore a Nuoro, quando la moglie e i due figlioletti scambiano con un bacio alla bara il segno della pace con Luca Tanzi, il poliziotto morto nel ponte di Oloè.

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