È davvero sconvolgente come un brano dell’Antico Testamento possa inquietare e scuotere l’animo di noi lettori di oggi, è la potenza di una Parola sempre nuova e che non lascia indifferenti ma chiama all’azione. E quanto è bello che a dare voce alla Parola sia una donna – Debora, profetessa, giudice, “donna di fuoco” – e che a “spezzarne” e attualizzarne il messaggio sia ancora una donna, la teologa e biblista Emanuela Buccioni, guida della Scuola della Parola diocesana giunta al secondo incontro, domenica 9 dicembre.
Dopo Rachele ecco dunque la figura di Debora protagonista con il suo canto: è la più antica composizione della Bibbia (Giudici 5) talmente ricca di spunti da rendere impossibile una cronaca puntuale della Lectio (per questo si rimanda alle registrazioni audio che saranno man mano pubblicate sul sito www.dicoesidinuoro. it) ma che permette di fermarsi su quanto di “provocante” lascia alla nostra coscienza cristiana.
Il contesto storico è quello di una oppressione ventennale per Israele, circondata da potenze militari all’avanguardia nella tecnica. Debora è donna che ha autorità, conosce e ascolta Dio e per questo può parlare in suo nome. Esercita il suo ruolo di guida e vuole accanto a sé un capo militare, Baraq: chiamato a raccolta il popolo – non tutti rispondono positivamente – è capace di suggerire una strategia e i nemici, con i loro carri di ferro, sono sconfitti. È la disfatta anche del comandante fuggito e finito da un’altra donna, Giaele. Le madri e mogli dei soldati sconfitti aspettano, immaginando i loro bottini, ma nessuno arriverà. Per Israele invece sarà la pace, «quelli che amano il Signore sono come sole che splende».
Debora è madre, comprende una situazione che la interpella e si dimostra donna responsabile, capace cioè di rispondere in prima persona, lasciandosi coinvolgere – alzandosi in piedi e agendo – e comprendendo che bisogna chiamare altri. Un tratto femminile e modernissimo – ha sottolineato la teologa – quello di chi aiuta l’altro a mettersi a disposizione perchè ciascuno ha qualcosa da dare. Essere madre significa assumere la causa del popolo che è la causa del futuro, avviando cioè quei processi che aiuteranno le prossime generazioni a vivere in pace.
Il popolo ha poi bisogno di fare memoria, ecco il canto, che ricorda come la vittoria sia giunta perchè frutto della collaborazione, del sentirsi uniti. Il canto fa capire anche molto di Dio, un Dio che chiama a corresponsabilità, libero, liberante e rispettoso della libertà umana: chiama ma non obbliga e anche chi non ha agito è comunque chiamato a essere grato e ricordare.
Cosa dice a noi allora la più antica pagina della Scrittura? Ci lasciamo interpellare dalla realta? La nostra preghiera è mossa dagli eventi, da quanto accade intorno a noi? Ci rendiamo conto che c’è una corresponsabilità – vale nel matrimonio, nell’educazione, nel lavoro, nella Chiesa – fra uomo e donna? Riusciamo a farci coinvolgere? C’è un contributo che il Signore aspetta da noi?
La profezia è un dono battesimale – ha ricordato Emanuela Buccioni – che aspetta di essere realizzato: aiuta a discernere il bene dal male, il buono dal migliore per scegliere quello che porta frutto. Il profeta cerca di comprendere il proprio presente alla luce di ciò che sa di Dio, apre percorsi di speranza, una parola questa che ha la stessa radice di seme, c’entra con la semina e una attesa attiva: magari non vedremo i frutti ma avremo fatto la nostra parte, a ciascuno spetta collaborare, rimuovere gli ostacoli, prima di tutti dentro se stessi, e lasciare agire Dio.
Da qui la domanda finale del Vescovo: «Stiamo coltivando la nostra coscienza per assumere le nostre responsabilità? ». A ciascuno la risposta. E i compiti a casa. (fra. co.)
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