Una sintesi e i materiali dell’incontro con don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza episcopale italiana.
Accanto a chi soffre, essere il «ci sono» di Cristo
«La cura della persona è dimenticata in tante comunità ma è bene ricordare come fosse parte integrante dell’azione di Gesù: deve esserlo anche della missione della Chiesa». Don Carmine Arice è un cottolenghino, nativo delle Puglie ma torinese d’adozione: alla scuola del Cottolengo ha ricevuto quella formazione che l’ha portato a dirigere l’ufficio nazionale per la Pastorale della salute della Cei. I sacerdoti nuoresi lo conoscono perché ha predicato loro i ritiri mensili durante lo scorso anno, il 7 gennaio ha incontrato gli operatori di pastorale della salute, in particolare i volontari di Adi, Oftal e Unitalsi, insieme ad alcuni medici e infermieri. È la prima volta che in diocesi si tiene un simile incontro, anche per questo don Arice ha inteso proporre un quadro generale dell’argomento riservandosi alla fine di proporre alcune linee d’azione ma senza tralasciare qualche provocazione.
All’origine della Pastorale della salute, dunque, non può che esserci il Vangelo. Accanto alla proclamazione della Parola, leggiamo in Marco al capitolo 16, Gesù elenca i segni che accompagneranno quanti credono: scacceranno demòni, imporranno le mani ai malati e questi guariranno: è la cura della salute dello spirito e di quella del corpo. A questo è chiamata anche la Chiesa, è parte integrante della sua missione. «L’identità della Pastorale della salute può essere descritta come presenza – “ci sono” è il nome di Dio – ancora come azione, il prendersi cura, infine come promozione di una cultura della vita. La comunità cristiana è chiamata conseguentemente a mettersi a servizio della cura “assistenziale”, dell’accompagnamento umano e spirituale, della cultura della Vita».
Ma cos’è la salute? – ha domandato don Arice. L’Organizzazione mondiale della sanità, fino al 1948, la definiva semplice assenza di malattie, noi parliamo invece di salute integrale della persona, del suo bene concretamente possibile. «Parliamo – ha sottolineato don Arice – di una persona particolare e concreta che ci sta davanti. Non parliamo di malattia ma di persona malata – ha proseguito indicando come guida le sette opere di misericordia corporale e spirituale». Un secondo passaggio, quali sono i soggetti della Pastorale della salute: la comunità ecclesiale, come detto, l’ammalato, la famiglia, l’assistente religioso e i religiosi, le associazioni, le istituzioni sanitarie cattoliche, il volontariato, tutti chiamati a operare una pastorale inclusiva. «La Pastorale della salute è in definitiva Cristo medico che si fa storia. Diciamo che il malato è Gesù? – ha chiesto provocatoriamente – allora trattiamolo da Gesù».
La parte centrale dell’intervento è servita a richiamare il contesto socio culturale nel quale si opera e che è segnato – come ricorda papa Francesco – dalla cultura dello scarto, dalla rivendicazione di diritti individuali prima che umani, dal prevalere della tecnica, dalla medicina dei desideri che sostituisce quella dei bisogni, dalla crisi dell’essere, dal predominio della finanza, da un crescente analfabetismo religioso. A fronte di questa situazione generale si aggiungono due emergenze nel nostro Paese: l’aumento esponenziale del numero di anziani – sono oggi circa 13 milioni – che fa da contraltare alla bassa natalità e il fenomeno immigrazione.
In Italia esistono quasi 6mila strutte residenziali con circa 290mila posti letto, questo significa che la maggioranza degli anziani vive – e deve essere assistita – in casa.
Quanto agli immigrati, la loro presenza è stimata in circa 6 milioni di persone, don Arice ha parlato di una occasione non solo perché consentono un saldo positivo al prodotto interno lordo ma perché anch’essi, con il loro carico di sofferenze, soggetti da curare: «Non ci sono estranei – ha detto con forza –, sono carne della nostra carne».
Che fare in questo contesto? «Perché pro-vocati, cioè chiamati a uscire, rispondiamo con una presenza di comunione, compassione e consolazione». In conclusione don Arice ha proposto un decalogo di azioni che nutrano la nostra testimonianza: innanzitutto ascoltare Dio e l’umanità, farsi carico, essere promotori di giustizia, accompagnare alle parole i gesti, curare la salute integrale della persona, favorire una cultura dell’incontro e del dialogo, promuovere la cultura, curare la formazione, la progettualità, essere testimoni della gioia. Il volto sia quello di persone salvate e amate, solari, serene, testimoni di speranza.
f. c.