L’ultimo appuntamento del secondo ciclo di incontri alla Scuola della Parola è un invito a un banchetto di nozze. Con la guida della teologa e biblista Emanuela Buccioni è risuonato nella chiesa di San Giuseppe il racconto dello sposalizio a Cana di Galilea: c’era la madre di Gesù e fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli – riporta l’evangelista a sottolineare il ruolo speciale di Maria, che precede quello di Gesù. Dopo Rachele e Debora è proprio Maria la protagonista della riflessione, «lei che è coinvolta personalmente dall’avventura nella quale Dio l’ha chiamata, è capace di coinvolgere a sua volta». Ma prima di addentrarsi nel racconto l’evangelista fornisce le coordinate temporali. Il terzo giorno: per gli ebrei è quello della teofania, ai cristiani fa venire in mente il girono in cui il Signore Gesù si rivela come risorto e vivente. Viene a mancare il vino, ma cos’è il vino in una festa di nozze?, si è chiesta la teologa. «È il di più che dà alla festa la possibilità di essere altro, un qualcosa di speciale (basti pensare al banchetto dei tempi messianici in Isaia o al Cantico dei cantici). Se il pane è ciò che ci è necessario – ha spiegato ancora –, il vino è la gratuità, quell’extra che dà gusto e dignità alla vita. Il venire a mancare significa qui una carenza, una cosa che non ha raggiunto l’obiettivo, che non è arrivato a pienezza. Il vino non è più vino». Anche noi – ha suggerito – possiamo chiederci allora «Cosa manca nella mia vita? Quali sono le mie aspettative di pienezza? Quali avevo e quali sento frustrate? Sperimento la mediocrità nella mia vita?».
L’atteggiamento di Maria, dunque. È quello di chi «chiama per nome il problema, non si mette a spettegolare, descrive il problema senza fare processi, discerne la situazione e lo fa non come ospite ma come parte della comunità». Un’altra provocazione: nella mia comunità mi sento ospite?, ha chiesto Buccioni, se mi sento parte vedo il problema e provo a fare qualcosa. «Così Maria innesca un processo, ha e genera fiducia: la corresponsabilità nasce dal dare fiducia, dal dire parole che edificano e danno futuro».
La risposta di Gesù apre, in una tradizione differente da quella che normalmente si sente nelle liturgie, scenari totalmente nuovi: «Che cos’è per me e per te, donna? Non è forse già giunta la mia ora?». Non più una presa di distanza ma una dimostrazione di interesse, come sarebbe più naturale nel rapporto tra Gesù e sua madre. «Maria assume qui un ruolo profetico – ha spiegato la teologa – e chiede a Gesù di interventire. Gesù coglie questo ruolo della donna che gli rivela e gli fa capire quando dare il via alla sua glorificazione». L’ora di Gesù, da qui alla croce, dunque, è da leggere come la progressiva manifestazione della sua identità.
I servitori fanno quello che Gesù dice, un atto di fiducia nei confronti di Maria e di Gesù. Assistiamo a una catena di collabrazioni basate su fiducia reciproca e obbedienza su cui poi arriva l’azione dall’alto. «Ma Dio – ha spiegato Emanuela Buccioni – non agisce sopra di noi, interviene quando abbiamo fatto la nostra parte. L’acqua è la nostra trasparente umanità ed è già tantissimo, la grazia non è una magia, senza l’inizio viene bloccata».
I servi colmano le giare, il responsabile del banchetto dà la conferma: ora c’è il vino buono, bello, letteralmente. «Si continua a dare qualcosa di prezioso, come la gratuità e l’abbondanza del dono arrivano anche quando non ce ne accorgiamo».
Questo è il primo dei segni di Gesù che manifestò la sua gloria, si legge nel testo: questa presenza ottiene la fede, «dove la fede manca è perché non ha visto dei segni né la manifestazione». Quali sono i segni? «La Chiesa – ha spiegato Buccioni – qui è la sposa di colui che si è manifestato come lo sposo, Gesù. I discepoli sono la prima comunità». È lo stesso schema che si verifica sotto la croce. Si è formata la comunità, la sposa che si nutre del dono di vita che il Signore fa a lei. Da qui ritorniamo a Cafarnao, alla quotidianità, alla normalità. «La rivelazione trasforma i discepoli, questo si vede nel quotidiano».
«Ma se la Chiesa è la sposa, ha domandato ancora la teologa, è attenta ad evitare che il vino non manchi o che non sia all’altezza? E ancora, guardiamo alla vita con la certezza che il meglio deve ancora venire? Mi aspetto e penso che il Signore ha ancora per me il vino eccellente? Ci credo che c’è un di più? Coltivo delle amicizie o qualcosa che dà il gusto alla vita? Sono contento della vita o manca qualcosa? Cosa ci impedisce di accogliere la pienezza?» Vale a livello personale, di coppia, nel lavoro, nella vita ecclesiale. «Su cosa deve allora essere vigilante la Chiesa?» La lista è lunga: «invidie, gelosie, narcisismo, fazioni, omologazione, chiacchiere, mancanza di franchezza, incapacità di mettersi in discussione, di motivare le proprie convinzioni, incapacitàdi vedere il bene. Ma il bene c’è, se riesco a vederlo – ha affermato la biblista – metto in moto fiducia e preparo il campo all’azione del Signore. Noi possiamo preparare ma non risolvere, il di più viene da Dio. In definitiva, dunque, la pienezza divina arriva attraverso la mediazione dell’umanità con la quale stringere alleanze».
Gli interventi e le domande dell’assemblea hanno concluso un lungo pomeriggio che si era aperto con il messaggio di saluto del Vescovo, ancora fuori sede per motivi di salute, che via telefono ha voluto ringraziare la teologa e i presenti per poi richiamare tutti e ciascuno alle parole di Maria: «Fate quello che vi dirà». L’azione spetta ora al singolo e all’intera comuità diocesana. (fra. co.)
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