di Caterina Muntoni
Vent’anni sono come il giorno di ieri che è passato. Vent’anni sono come un turno di veglia nella notte.
Ricordo ogni singolo istante di quella vigilia di Natale, di quella mattina del 24 dicembre 1998 quando Graziano uscì di casa alle 6.30 per recarsi a celebrare la Messa nella sua chiesa.
Io ero lì per le vacanze di Natale, come facevo abitualmente da quando Graziano svolgeva a Orgosolo il suo ministero sacerdotale; un ministero che portava avanti con grande passione, con grande impegno e anche con grande entusiasmo, nonostante la sua età matura. Era, infatti, diventato sacerdote a 49 anni dopo una vita dedicata all’insegnamento come docente di lettere alla scuola media nei vari paesi della Barbagia, dell’Ogliastra e del Mandrolisai, e con alle spalle una grande esperienza in campo ecclesiale, sociale e politico; a Fonni, il suo paese, era stato presidente dell’Azione Cattolica, amministratore comunale, assessore, presidente della Pro loco, impegnato nelle associazioni sportive e di volontariato.
Questo gli consentiva di essere un prete un po’ particolare, con quel marchio di laicità, nel senso più positivo del termine, che gli dava l’opportunità di entrare in tutti gli ambienti e di essere accettato, ma non gli impediva di condannare apertamente le ingiustizie, l’ipocrisia, la violenza e l’omertà; d’altro canto lo esponevano a maggiori rischi e pericoli e lo rendevano più vulnerabile.
Le sue migliori energie, ancor prima che diventasse prete, erano per i ragazzi e per i giovani, in particolare per i più deboli, gli emarginati, gli ultimi; non si contano i campi-scuola, le escursioni in montagna, le pedalate in bici organizzate per i ragazzi. Il suo grande modello era Don Bosco e il “Metodo Preventivo” che cercava di applicare sia nella sua azione educativa sui banchi di scuola che nelle attività pastorali in Parrocchia e i risultati non mancavano, a giudicare anche dalle numerose testimonianze di alunni e giovani che continuano ad arrivare a distanza di tempo. La sua pastorale era quasi una pastorale di strada, concepiva il territorio come una risorsa, un’opportunità e per questo usciva e andava in quei luoghi abitati dai ragazzi e dai giovani che in chiesa non avrebbe mai incontrato: i bar, le strade, le piazze, i muretti.
Qualcuno forse non ha gradito questa invasione di campo, qualcuno si è sentito “minacciato” da un prete che desiderava offrire a quei ragazzi un’alternativa al bar, alla strada, alla piazza, all’alcool, alla noia; l’alternativa di un Centro Giovanile dove avrebbero potuto riunirsi, discutere dei loro problemi, sentirsi come a casa propria e avere anche lo spazio per momenti di convivialità e di sano divertimento. No, questo è troppo – devono aver pensato – bisogna fermarlo. E come? Quale modo più sicuro se non quello che loro conoscevano bene e che forse avevano sperimentato altre volte? E così è stato, quella vigilia, qualcuno lo attendeva e approfittando dell’oscurità ha osato impugnare un’arma e ferirlo a morte.
Qualche minuto dopo fui chiamata, mi precipitai e mai avrei immaginato di trovarmi davanti agli occhi una simile scena. Graziano disteso a terra ormai privo di vita, con le braccia aperte come un crocifisso, in una mano il breviario e nell’altra le chiavi della Chiesa: questa immagine mi ha tenuta sveglia per tantissime notti, mi accompagna ancora e credo che la porterò con me fino alla fine dei miei giorni. Un uomo che spendeva quotidianamente, senza riserve, tutta la sua vita a servizio di quella comunità.
E perché?
Domande che a distanza di vent’anni sono rimaste senza risposta e che avrebbero meritato una risposta, sia da parte degli inquirenti sia da parte della stessa comunità. Ma se dici questo ti senti rispondere che così vanno le cose da noi, così sono sempre andate in passato e così continueranno perché l’omertà (guai a pronunciare questa parola) la fa da padrona e chi sa non parlerà mai, sia perché “ognuno deve farsi gli affari suoi”, sia perché non ci si sente protetti.
Io non mi sono mai arresa a questa mentalità e, pur avendo apertamente dichiarato da subito di non volere alcuna violenza per chi si è reso responsabile di un simile delitto, ho sempre sollecitato che chi sa deve parlare, altrimenti diventa complice e proprio quel silenzio diventa il punto di forza di chi compie queste terribili azioni.
Chi sono quelli che sparano e uccidono? Nel linguaggio comune sono dei mostri, non sono più uomini, lo sentiamo ripetere continuamente e anch’io ho avuto questi pensieri perché un uomo non può uccidere un suo simile e mi faceva comodo pensare in questo modo, perché così potevo scaricare su di loro tutta la mia rabbia e il mio disprezzo, ma poi non so per quale motivo, sicuramente per un dono di Dio, forse per un dono di Graziano, risuonavano nella mia mente quelle parole pronunciate nella sua ultima omelia durante la novena di Natale e che ora mi apparivano come il suo testamento spirituale: «Quale grande dono ci ha fatto il Signore! Pensate, ci ha reso tutti fratelli perché figli dello stesso Padre…».
Tutti fratelli. Quindi, anche quello sciagurato? Com’è possibile? Forse allora l’assassino non è un mostro, è un uomo che ha commesso un crimine da condannare senza se e senza ma, ma che può essere salvato.
Quanto è difficile percorrere questa strada! Da quel vicolo stretto e buio è cominciato per noi il cammino faticoso del perdono. Sì, perché il perdono è un cammino faticoso, ma è l’unico che ti consente di non tradire il Vangelo, di rialzarti e di continuare a vivere perché, piano piano, libera il tuo cuore dal rancore, dalla rabbia, dal desiderio di vendetta verso chi o coloro che ti hanno causato una così grande sofferenza, con la quale ormai dovrai imparare a convivere per il resto della tua vita.
A questo punto vorrei sgombrare il campo da alcuni equivoci, abbastanza diffusi: perdonare non significa scusare o trovare attenuanti al male; perdonare non significa dimenticare; perdonare non è neanche un premio al pentimento di chi ci ha offeso; il perdono dato solo a chi si pente è ancora molto imperfetto e condizionato. E il nostro perdono è di solito condizionato da tanti “se” e da tanti “ma”. Quasi mai è un dono per, un regalo, qualcosa donata gratis senza chiedere niente in cambio, un atto d’amore gratuito quindi, che possa consentire a chi ha sbagliato di ricominciare, di rialzarsi, di cambiare vita. Ma attenzione: il perdono non si oppone alla giustizia, si oppone alla volontà di vendetta, che è una cosa ben diversa. Spesso viene interpretato come un atto di debolezza, quasi di viltà, in realtà richiede molto coraggio e forza interiore.
Altri pensano che ne vada di mezzo la tua dignità e quella della tua famiglia: di fatto il perdono non contrasta con la tua dignità, ma ne è la garanzia sicura. Un dono, quindi. E come tutti i doni ha un costo: costa un pezzo di noi stessi, un pezzo delle nostre ragioni, un pezzo del nostro senso di giustizia, un pezzo del nostro desiderio di aggressione e di vendetta. Eppure questi costi non sono paragonabili ai benefici che produce dentro di noi e fuori di noi: potremmo definire il perdono come un’operazione che alla fine ci consegna sempre un bilancio positivo.
Molti pensano che perdonare sia impossibile. Quando si tratta di piccole offese, forse non è così difficile ma davanti a ferite profonde, sembra quasi impossibile, la nostra stessa natura si ribella e considera il perdono inaccettabile. Io in questi anni ho avuto l’opportunità di condividere la mia esperienza con tante altre famiglie della mia e di altre comunità, colpite da tragedie simili: «Vedi io vorrei perdonare, ma non ci riesco, ogni volta che ci provo mi trovo davanti ad un muro insuperabile », mi hanno confidato alcune di loro. Io penso che, chi vorrebbe perdonare ed ha la sensazione di non farcela, sia già sulla buona strada, perché quella sensazione di impotenza sta a significare che il perdono non è opera nostra ma è un dono di Dio.
Non un perdonismo a buon mercato, quindi, che annulli la ricerca della giustizia e della verità, che neutralizzi la colpa, che stenda su di essa un velo pietoso, o addirittura omertoso, ma un atteggiamento critico che porti a un impegno perché quegli atti non debbano ripetersi.
Il perdono, alla fine, è una scelta. Una scelta non facile che non puoi fare una volta per tutte, ma che devi rinnovare ogni giorno, perché le emozioni negative sono sempre in agguato e tu non devi mai abbassare la guardia. Naturalmente siamo persone libere e possiamo fare scelte diverse: si può decidere di assumere un atteggiamento passivo di chi vuole lasciar perdere e subire il fatto senza reagire, per paura, per amore di quieto vivere; si può decidere di rispondere all’offesa con l’offesa, con l’aggressività, con la prepotenza, con la violenza, ma questo dove porta? Lo sappiamo bene dove porta questa scelta nelle nostre comunità; si può invece decidere di rispondere con un comportamento che tenga conto non solo della persona che ha subito il male, ma anche della persona che ha causato il male e ci si chiede che cosa fare perché quel male si trasformi in qualcosa che possa aiutare te stesso e gli altri. Se si percorre quest’ultima strada, allora per prima cosa bisogna lavorare su se stessi per purificare il proprio animo e trasformare la rabbia in sentimenti di misericordia, pensando che quel fratello che ti ha così gravemente offeso è vittima di se stesso e del suo male.
Un ultimo aspetto del perdono è farsi operosi. Quando si parla di perdono si pensa di solito ad un perdono silenzioso, e questo merita davvero tanto rispetto. Io penso ad un perdono che non vuole coprire, non vuole de-responsabilizzare, ma vuole mettere in crisi, vuole attivarsi perché simili episodi, che purtroppo si ripetono troppo spesso nelle nostre comunità, non accadano più. Ci sto provando, anzi ci stiamo provando, da vent’anni, con tutti i limiti, con tutta la fatica che questo comporta, ma anche con la speranza che il sacrificio di Graziano, assieme al sacrificio di tante vittime innocenti della nostra terra, diventi un monito per le nostre comunità e sia come il chicco di grano del Vangelo che, caduto in terra, muore per portare molto frutto.
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